Con sentenza del 9 aprile 2024, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sul caso Verein Klimaseniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera (ricorso n. 53600/20), riguardante la questione dell’obbligo degli Stati di contrastare le conseguenze dell’emergenza climatica.
La vicenda trae origine dal ricorso presentato nel 2020 dall’associazione svizzera Verein KlimaSeniorinnen Schweiz (“Anziane per la protezione del clima”), costituita da più di 2.000 donne ultrasettantenni per promuovere e attuare un’efficace protezione del clima, nonché da quattro donne, tutte membri dell’associazione e di età superiore agli 80 anni.
L’associazione e le donne ricorrenti avevano formulato molteplici richieste davanti alle autorità nazionali, lamentando le carenze nel settore della protezione del clima e chiedendo l’attivazione delle autorità competenti ai fini dell’adozioni di misure di contrasto alle conseguenze negative dei cambiamenti climatici, comprese le misure per raggiungere l’obiettivo del 2030 fissato dall’Accordo di Parigi. Di fronte all’inerzia delle autorità elvetiche, le ricorrenti presentavano ricorso, senza successo, fino al Tribunale federale.
Nel 2020, le ricorrenti decidevano di adire la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione degli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata) della CEDU, ritenendo che le autorità svizzere non avessero adottato misure sufficienti per mitigare gli effetti del cambiamento climatico ed, in particolare, del riscaldamento globale, i quali influiscono negativamente sulla vita, sulle condizioni di vita e sulla salute delle singole ricorrenti e dei membri dell’associazione ricorrente. In tale contesto, le ricorrenti sostenevano che la Svizzera non avesse introdotto una legislazione adeguata in materia e non avesse adottato misure appropriate e sufficienti per raggiungere gli obiettivi di lotta al cambiamento climatico, in linea con gli impegni assunti a livello internazionale.
Le ricorrenti lamentavano, inoltre, la violazione dell’articolo 6 § 1 della CEDU (diritto ad un equo processo) per mancanza di accesso a un tribunale in grado di pronunciarsi sulla mancata adozione da parte dello Svizzera delle misure necessarie per contrastare il cambiamento climatico.
La questione veniva devoluta alla Grande Camera il 26 aprile 2022, in ragione della sua fondamentale importanza, insieme ad altri due ricorsi riguardanti l’emergenza climatica, entrambi successivamente dichiarati inammissibili (vd. Carême c. Francia e Duarte Agostinho and Others c. Portogallo e altri 32 Stati).
Con la sentenza in parola, la Grande Camera ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalle quattro singole ricorrenti per difetto di status di vittima, ritenendo che non soddisfacessero i criteri dello status di vittima ai sensi dell’articolo 34 CEDU. In particolare, sebbene le ricorrenti appartenessero a un gruppo particolarmente suscettibile agli effetti del cambiamento climatico, non risultava dai materiali disponibili che fossero state esposte agli effetti negativi del cambiamento climatico o che fossero a rischio di esserlo in qualsiasi momento rilevante del futuro, con un grado di intensità tale da far sorgere un bisogno urgente di garantire la loro protezione individuale.
Al contrario, la Grande Camera ha ritenuto sussistente in capo all’associazione la necessaria legittimazione ad agire per conto dei suoi componenti, dichiarando ammissibile il ricorso presentato dalla stessa.
La Corte ha deciso di non esaminare il caso dal punto di vista dell’articolo 2, limitandosi a prendere in considerazione le doglianze relative agli articoli 8 e 6 § 1 della CEDU, riscontrando la violazione, da parte della Svizzera, di entrambi.
Nella sentenza, la Grande Camera ha affermato che l’articolo 8 della CEDU prevede il diritto degli individui a una protezione effettiva da parte delle autorità statali contro i gravi effetti negativi del cambiamento climatico sulla loro vita, salute, benessere e qualità della vita. La Corte ha riscontrato alcune lacune critiche nel quadro normativo svizzero relativo alla tutela dell’ambiente, evidenziando come le autorità svizzere non abbiano agito in tempo utile e in modo appropriato e coerente ai fini del raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. Di conseguenza, la Grande Camera ha ritenuto che lo Stato convenuto abbia superato il suo margine di apprezzamento e sia venuto meno ai suoi obblighi positivi ai sensi dell’articolo 8 CEDU.
Con riguardo all’articolo 6 § 1 della CEDU, la Grande Camera ha ritenuto che i tribunali nazionali non si fossero occupati seriamente o affatto del ricorso a livello interno, non fornendo motivazioni convincenti sul perché avessero ritenuto non necessario esaminare il merito dei reclami. Poiché non vi erano ulteriori vie legali o tutele a disposizione dell’associazione ricorrente, la Corte ha ritenuto che il diritto dell’associazione ricorrente di accedere a un tribunale fosse stato limitato in modo da compromettere l’essenza stessa del diritto.
Con questa storica sentenza, lunga oltre duecento pagine, la Corte di Strasburgo per la prima volta si pronuncia sulla questione dell’emergenza climatica, sottolineando il ruolo chiave dei tribunali nazionali nelle controversie sul cambiamento climatico ed evidenziando l’importanza dell’accesso alla giustizia in questo campo.
Con sentenza n. 66/2024 pubblicata il 22 aprile 2024, la Corte costituzionale ha affermato che, a seguito della proposizione di domanda di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso di uno dei componenti di un’unione civile, nel caso in cui entrambi intendano mantenere la relazione celebrando il matrimonio, i diritti della coppia non si estinguono nel periodo compreso tra la cessazione del rapporto di unione civile e la celebrazione del matrimonio.
Alla base della pronuncia vi era la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torino, il quale, nel corso di un giudizio relativo alla rettifica di sesso di uno dei componenti di un’unione civile, aveva ravvisato una possibile disparità di trattamento tra una coppia unita civilmente e una coppia unita in matrimonio, qualora una delle parti decida di intraprendere il percorso di transizione di genere.
Infatti, nel caso del matrimonio, l’art. 1, comma 27, della c.d. legge sulle unioni civili (legge 20 maggio 2016, n. 76) prevede la possibilità dell’automatica instaurazione dell’unione civile a seguito della rettificazione di sesso di uno dei due coniugi, qualora essi abbiano manifestato congiuntamente al giudice, nel corso del giudizio per rettifica di sesso, la volontà di proseguire la loro relazione unendosi civilmente. Al contrario, nel caso dell’unione civile, il medesimo articolo dispone l’automatico scioglimento dell’unione civile a seguito di sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso.
La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 1, comma 26, della legge sulle unioni civili per contrasto con l’art. 2 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo di unione civile per il tempo necessario affinché le parti celebrino il matrimonio, qualora entrambe le parti dell’unione abbiano rappresentato congiuntamente al giudice, entro l’udienza di precisazione delle conclusioni, l’intenzione di contrarre matrimonio. La durata della sospensione è stata determinata in 180 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso.
Con ordinanza n. 7691/2024 pubblicata il 25 marzo 2024, la Corte di cassazione si è pronunciata in materia di rivalutazione dell’assegno divorzile a seguito della revoca dell’assegnazione della casa familiare.
La vicenda trae origine dal ricorso proposto dall’ex marito avverso il decreto con cui la Corte d’Appello di Brescia aveva disposto l’aumento dell’assegno divorzile dovuto dal ricorrente all’ex moglie successivamente alla revoca dell’assegnazione alla stessa della casa familiare.
La Corte di cassazione, con l’ordinanza in parola, ha rigettato il ricorso, ritenendo corretta la rivalutazione dell’assegno divorzile fatta dai giudici di secondo grado. L’assegnazione della casa all’ex moglie era venuta meno in ragione della cessazione della convivenza tra madre e figli maggiorenni economicamente sufficienti. Tale circostanza, oltre ad incidere negativamente sul diritto di abitazione della donna, assume anche rilievo da un punto di vista patrimoniale: essendo l’abitazione destinata a casa familiare di proprietà esclusiva dell’ex marito ricorrente, la revoca del vincolo di abitazione sull’immobile ha comportato un miglioramento delle condizioni economiche dello stesso e un peggioramento di quelle dell’ex moglie, ex assegnataria.
Richiamando le parole della Corte di cassazione, “[è] vero, infatti, che la statuizione sull’assegnazione della casa familiare è posta nell’esclusivo interesse del figlio minorenne o maggiorenne ma non ancora autosufficiente economicamente”, tuttavia, aggiunge la Corte, “a prescindere da tale indiscussa funzione, finalizzata a conservare l’habitat familiare dei figli, non può negarsi che detta assegnazione abbia dei riflessi economici, perché consente al genitore assegnatario di evitare la ricerca di una diversa abitazione, che invece deve essere reperita dal genitore che non vive in prevalenza con i figli, anche se è il proprietario esclusivo o il comproprietario dell’abitazione stessa. Allo stesso modo, la revoca dell’assegnazione della casa familiare costituisce una modifica peggiorativa delle condizioni economiche del genitore che ne fruisce insieme ai figli e una sopravvenienza migliorativa per l’altro che ne sia il proprietario esclusivo”.
La Corte di cassazione ha, dunque, confermato l’aumento dell’assegno divorzile dovuto dal ricorrente all’ex moglie, statuendo che, “[i]n tema di revisione delle condizioni di divorzio, costituisce sopravvenienza valutabile, ai fini dell’accertamento dei giustificati motivi per l’aumento dell’assegno divorzile, la revoca dell’assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva dell’altro ex coniuge, il cui godimento, ancorché funzionale al mantenimento dell’ambiente familiare in favore dei figli, costituisce un valore economico non solo per l’assegnatario, che ne viene privato per effetto della revoca, ma anche per l’altro coniuge, che si avvantaggia per effetto della revoca.”
Con ordinanza depositata all’udienza del 18 marzo scorso, la Corte d’Assise di Roma si è pronunciata sulle questioni pregiudiziali e preliminari sollevate per conto degli imputati nel caso Regeni, rigettandole.
Il processo a carico dei quattro agenti della National Security egiziana è stato “riavviato” a seguito della sentenza n. 192 del 26 ottobre 2023 della Corte Costituzionale, la quale aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, così come modificato dalla riforma Cartabia, nella parte in cui non permette al giudice di procedere in assenza dell’imputato per delitti commessi mediante atti di tortura, così come definiti dalla Convenzione di New York contro la tortura del 1984, in quei casi in cui lo Stato di appartenenza dell’imputato stesso si rifiuti di collaborare, rendendo impossibile ottenere la prova che l’imputato sia effettivamente a conoscenza del processo pendente a suo carico.
La sentenza della Corte Costituzionale, affermando che la disciplina del “processo in absentia” (processo in assenza dell’imputato) non può risolversi in una immunità di fatto ostativa all’accertamento dei crimini di tortura, ha effettivamente sbloccato il processo a carico dei quattro agenti, precedentemente arenatosi a causa della mancata collaborazione del governo egiziano, il quale non aveva comunicato gli indirizzi degli accusati, che, dunque, risultavano irreperibili.
I difensori di questi ultimi, durante l’udienza del 20 febbraio 2024, avevano sollevato eccezioni riguardanti la sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano, soprattutto in relazione all’operatività del principio di irretroattività della legge penale «a fronte dell’introduzione delle fattispecie specifiche di cui agli artt. 613 bis. e 613 ter. c.p. solo attraverso norme successive ai fatti, ossia con legge 14/7/2017, n. 110». Ulteriori obiezioni della difesa riguardavano le posizioni dei tre restanti imputati, a cui è contestato l’unico reato di sequestro di persona aggravato dalla qualità di pubblici ufficiali e non reati lesivi dell’integrità fisica del Regeni, la cui condotta non rientrerebbe, dunque, nell’«ambito definitorio internazionale della “tortura” offerto dall’art. 1 CAT, quale recepito dalla legge nazionale».
Sul primo punto, la Corte d’Assise di Roma ha ritenuto che la norma del Codice penale che incrimina la tortura (art. 613 bis c.p.), introdotta nell’ordinamento italiano nel 2017, contenga solo l’esplicitazione successiva di un concetto già esistente nell’ordinamento italiano all’epoca dei fatti, risalenti al 2016. Richiamando le parole della Corte d’Assise nell’ordinanza in parola, le condotte contestate ad uno degli imputati «di inflizione al corpo di Giulio Regeni di gravi lesioni personali di natura fisica all’origine dell’indebolimento e della perdita permanente di più organi attraverso strumenti di tortura e mezzi contundenti di varia natura […] sino a cagionarne la morte, con la connessa contestazione circostanziale delle aggravanti delle sevizie e della crudeltà, quand’anche rubricate nell’unica fattispecie che al tempo lo consentiva in attuazione del principio di legalità (ossia gli artt. 582 – 583 n. 2 e 585 anche in relazione agli artt. 576 n.2, 61 nn. 1), 4) e 9), c.p.) possono agevolmente ricomprendersi nel concetto più puro e minimale di “tortura”, così come allora vivente nell’ordinamento e semplicemente esplicitato in via postuma dall’art. 613 bis. c.p.». Per tali ragioni, a detta della Corte, «non vi è dubbio alcuno che detta descrizione dell’azione avrebbe oggi portato all’incriminazione per il delitto di cui all’art. 613 bis. c.p. e che contiene tutti gli elementi minimali costitutivi che il diritto internazionale cogente, già riconosciuto peraltro dalla Repubblica dell’Egitto […], prevedeva al tempo delle condotte quale base essenziale di incriminazione penale da parte degli ordinamenti aderenti».
In relazione alle posizioni degli altri tre imputati, la Corte d’Assise ha ritenuto sussistenti gli elementi minimali costitutivi del reato di tortura «anche per i restanti imputati cui è contestato il delitto di sequestro di persona aggravato, pur senza il concorso nei reati direttamente lesivi dell’integrità fisica di Giulio Regeni: ciò non tanto in virtù di un principio di connessione finalistica tra le varie condotte […], quanto piuttosto valorizzando le modalità, le caratteristiche e le finalità delle condotte stesse, allo stato delle incolpazioni formulate». Infatti, «le modalità esecutive prescelte per il sequestro, di per sé induttive di grave sofferenza psichica e di prostrazione morale, aggiunte alla mortificazione corporale, non possono che essere state ispirate a quelle finalità essenziali della tortura pubblica di tipo punitivo e/o intimidatorio che connota il dolo specifico della fattispecie».
Conclude la Corte d’Assise che, «verificata l’essenza della nozione di “tortura” al tempo delle condotte e la sua cogenza, deve ribadirsi la sussistenza della giurisdizione italiana rispetto a tutte le ipotesi criminose contestate, in virtù dell’obbligo costituzionale di azione e sanzione per i fatti ad essa ascrivibili, quand’anche il principio generale di irretroattività delle incriminazioni fondato sull’art. 25 comma 2 Cost. ne abbia imposto la sussunzione in fattispecie con diverso nomen juris».
L’Unione forense per la tutela dei diritti umani organizza il seminario sull’argomento “La tutela antidiscriminatoria tra diritto internazionale, europeo e italiano”. (LOCANDINA)
Il seminario è aperto a tutti coloro i quali siano interessati ad esplorare la tematica del divieto di discriminazione a livello interno, europeo, ed internazionale, approfondendo, in particolare, la questione della tutela antidiscriminatoria davanti al giudice.
Il seminario si articola in 3 incontri, che si terranno in modalità streaming attraverso la piattaforma Microsoft Teams nelle seguenti date:
Il costo della partecipazione al seminario è di 110,00 € oltre IVA (135,00 € complessivi) per gli iscritti entro il 30 aprile 2024, mentre a partire dal 1 maggio 2024 la quota di iscrizione ammonta a 127,00 € oltre IVA (155,00 € complessivi). È possibile iscriversi alle singole giornate di studio con una quota di partecipazione di € 45,00 oltre IVA (€ 55,00 complessivi).
Al termine del corso è previsto il rilascio di un attestato di partecipazione.
Le iscrizioni dovranno pervenire entro il 31 maggio 2024. Per ulteriori informazioni consultare il sito dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani.
Il 19 aprile 2024, a Parigi, in occasione della riunione del Consiglio d’amministrazione dell’Institut des droits de l’Homme des Avocats européens (IDHAE, Istituto per i diritti umani degli avvocati europei), l’Avv. Prof. Anton Giulio Lana è stato designato quale nuovo Presidente. L’IDHAE è un’organizzazione internazionale nata nel 2001 con lo scopo di promuovere lo studio dei diritti umani e di formare nuovi avvocati esperti nella tutela degli stessi.
L’Avv. Prof. Lana sostituisce l’Avv. Bertrand Favreau, fondatore dell’IDHAE e Presidente della stessa fino a tale data, che ha dedicato anni di prezioso lavoro dedicato alla promozione dell’attività dell’IDHAE nel campo dei diritti umani.