Lo scorso 26 giugno, l’Avv. Anton Giulio Lana, in qualità di loro legale, ha accompagnato i parenti delle vittime del rogo di Torino nello stabilimento della ThyssenKrupp a un colloquio con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e con il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. L’incontro è stato fissato poiché da fonti tedesche era trapelato che i due manager tedeschi condannati per la morte di sette operai avrebbero finalmente iniziato a scontare la pena detentiva comminata in Italia tramite il regime premiale della semilibertà, così come poi confermato successivamente dalle autorità tedesche. Secondo tale regime, i due manager – che da oggi iniziano a scontare i cinque anni di condanna – potranno continuare a lavorare, limitandosi a recarsi in carcere per scontare la pena ogni sera. “Il premier si è impegnato a convocare l’ambasciatore tedesco per ragguagli su questa ulteriore beffa che i parenti delle vittime hanno appresso dai media tedeschi” ha affermato all’esito dell’incontro l’Avv. Lana.
Il 9 luglio 2020, la VI sezione civile della Corte di Cassazione ha pubblicato un’altra importante decisione in tema di sangue infetto. Nell’occasione, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato da una donna che si era vista negare, nei precedenti gradi di giudizio, il risarcimento del danno patito in conseguenza di una infezione da virus dell’epatite C, contratta a seguito di una emotrasfusione cui si era sottoposta.
In particolare il Tribunale di prime cure e la Corte d’Appello di Milano avevano ritenuto prescritto il diritto della ricorrente a richiedere il risarcimento del danno, sul presupposto che il contagio era avvenuto nel 1983 e che dal 1997 l’attrice era già consapevole di essere malata.
La Corte di Cassazione si è pronunciata affermando che, sebbene la donna fosse a conoscenza della malattia che l’affliggeva, la stessa non sapeva, ne avrebbe potuto sapere con l’uso dell’ordinaria diligenza, che la causa della malattia fosse la trasfusione eseguita anni addietro.
La Suprema Corte, in conclusione, ha ritenuto violato l’art. 2935 c.c. relativo al decorso della prescrizione, dal momento che “l’accertamento del momento in cui ad una paziente viene resa nota l’esistenza della sua malattia, da solo, non è sufficiente per desumerne che a partire da quel momento il paziente sia anche consapevole della causa della malattia. Pertanto, in mancanza di ulteriori elementi, l’exordium praescriptionis del diritto al risarcimento del danno consistito nella contrazione di una malattia infettiva, causata da un fatto illecito, non può farsi decorrere dal momento della sola comunicazione al paziente dell’esistenza della malattia”.
La prescrizione deve iniziare a decorrere a partire dal momento in cui il danneggiato, con l’ordinaria diligenza esigibile dal cittadino medio, sia in grado di avvedersi non solo dell’esistenza della malattia, ma anche della sua derivazione causale nella condotta illecita di un terzo.
Con ordinanza n. 11186/2020, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un padre che contestava il permanere dei presupposti per il mantenimento del figlio maggiorenne, ancora studente universitario ma con un contratto part-time a tempo indeterminato presso Poste.
La Corte suprema ha ribadito che se è vero che l’obbligo di mantenimento sussiste anche nei confronti dei figli maggiorenni quando gli stessi non siano economicamente autosufficienti, tuttavia esso è strettamente connesso alle circostanze del caso, nonché all’evoluzione della situazione economica dei figli.
In particolare, l’ordinanza ha chiarito che “il giudice del merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l’assegnazione dell’immobile, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all’età dei beneficiari; tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, tenendo conto che il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori), com’è reso palese dal collegamento inscindibile tra gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione.”
Sulla base di questi presupposti, la Corte di Cassazione ha ritenuto non sussistessero più le condizioni che giustificavano il perdurare di tale obbligo, in accoglimento del ricorso del padre, il quale non dovrà più corrispondere l’assegno di mantenimento.
Con ordinanza n. 132 depositata in data 26 giugno 2020, la Corte Costituzionale ha lanciato un monito al legislatore in materia di diffamazione a mezzo stampa: ritenendo che l’attuale assetto legislativo non sia attualmente bilanciato rispetto all’esigenza, da un lato, di garantire la libertà di manifestazione del pensiero sancita dalla nostra Costituzione (art. 21 Cost.) e dalla CEDU (art. 10 CEDU) e, dall’altro, di garantire il rispetto dell’altrui reputazione. Tale bilanciamento non può essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni: esso diviene poi particolarmente delicato quando si parla di diffamazione a mezzo stampa, venendo in gioco anche il diritto di cronaca e di critica dei giornali e dei media.
La Corte costituzionale, analizzando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha riscontrato che nel caso del reato di diffamazione a mezzo stampa (di cui all’articolo 595 del codice penale) la pena detentiva sia particolarmente divenuta inadeguata, poiché afflittiva e sproporzionata rispetto al contemperamento degli interessi contrapposti.
Secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ormai consolidata, la previsione, anche solo in astratto, della pena detentiva contrasterebbe con i dettami della CEDU, soprattutto in virtù del fatto che una previsione di questo genere sarebbe idonea a scoraggiare l’esercizio della libertà di espressione, quello che i giudici di Strasburgo chiamano “chilling effect”.
La Corte costituzionale ha dunque rinviato la trattazione dell’udienza relativa all’illegittimità costituzionale della previsione della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa, dando un anno di tempo al legislatore per trovare una nuova soluzione, che dovrà “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica (…) con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”.
Al legislatore spetta dunque il compito, non facile, di individuare un nuovo e più equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (quali, ad esempio, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare.
In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si inscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’incitamento all’odio.
Con ordinanza n. 8816 del 12 maggio 2020, la Corte di Cassazione ha riaffermato il principio secondo il quale l’obbligo di corrispondere il mantenimento ex art. 148 c.c. retroagisce alla domanda giudiziale e non al momento della sentenza che ne accerta il diritto: il tempo per far valere un diritto non può infatti pregiudicare il diritto stesso.
Secondo i giudici della Cassazione, l’obbligo di mantenimento decorre dalla nascita del figlio e, pertanto, “nel caso di successiva cessazione della convivenza fra i genitori, l’obbligo del genitore non affidatario o collocatario decorre non già dalla proposizione della domanda giudiziale, bensì dalla effettiva cessazione della coabitazione”.
In particolare, tale obbligo decorre dalla esplicita domanda della parte, posto che la decisione del giudice relativa all’obbligo di mantenimento a carico del genitore non affidatario o collocatario non ha effetti costituitivi, bensì meramente dichiarativi di un diritto che, nell’an, è direttamente connesso allo status genitoriale.
Spetta poi al giudice graduare il quantum debeatur in relazione ai diversi periodi di vita del minore, anziché prevedere un unico importo medio, fissandone le relative decorrenze.
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