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Newsletter n. 10 del 5 agosto 2022

Sommario

La Corte EDU condanna ancora una volta l’Italia per la violazione dell’art. 3 in un caso di violenza domestica.

Con la Sentenza M.S. c. Italia del 7 luglio 2022 (n. 32715/19) – appena successiva alla sentenza resa dalla Corte EDU nel caso De Giorgi c. Italia del 16 giugno 2022 (n. 23735/19) – la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano per la violazione, sostanziale e procedurale, dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti disumani o degradanti), in ragione dell’incapacità delle autorità italiane di proteggere una donna dalle ripetute minacce e  violenze inflittegli dal marito.

Nella fattispecie, la ricorrente, vittima di violenza domestica, a partire dal 2004, sporgeva più volte denuncia nei confronti del marito.

Nel 2007, la ricorrente veniva aggredita con un coltello dal marito durante un incontro svoltosi alla presenza del suo avvocato e finalizzato a discutere della separazione in corso. L’aggressore mancava la ricorrente, colpendo invece il suo avvocato. M.S. sporgeva, quindi, nuovamente denuncia. Il marito veniva condannato dal Tribunale di primo grado per le lesioni inflitte all’avvocato e i maltrattamenti perpetrati nei confronti della ricorrente, ma poi veniva successivamente assolto nel 2014 dalla Corte d’appello per l’intervenuta prescrizione dei reati ascrittigli.

Tra il 2007 e il 2013 la ricorrente presentava diverse denunce asserendo di essere stata più volte aggredita, sia fisicamente che verbalmente, dal marito che la seguiva e la chiamava ripetutamente manifestando un comportamento persecutorio. Solo nel 2008 veniva disposta una misura cautelare nei confronti dell’ex marito della ricorrente.

I procedimenti penali iniziati nei confronti del marito si concludevano quasi tutti con l’assoluzione dell’imputato per intervenuta prescrizione dei reati ascrittigli.

Solo nel 2020, quindi sedici anni dopo la prima denuncia sporta della ricorrente, il Tribunale condannava il marito a tre anni di carcere per molestie.

Alcuni procedimenti nei confronti del marito risultano tuttora pendenti.

In virtù dei fatti sopra esposti, la ricorrente adiva la Corte europea dei diritti dell’uomo facendo valere la violazione degli artt. 2 CEDU (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo). La ricorrente lamentava, in particolare, la mancanza di protezione e assistenza da parte dello Stato convenuto a seguito della violenza domestica inflittale dal marito e il mancato rispetto delle garanzie procedurali di cui all’articolo 3, in quanto, essendo stati dichiarati prescritti diversi reati, le autorità non agivano con la necessaria tempestività e diligenza.

La Corte, nella sentenza in commento, osservava che, nonostante l’adeguatezza della legislazione italiana nell’offrire protezione alle vittime di violenza, in questo caso si riscontrava chiaramente una violazione dell’art. 3 CEDU tanto nel suo aspetto sostanziale, tanto in quello procedurale.

In particolare, la Corte distingueva due periodi. Il primo, dal 2007 al 2008, in cui le autorità italiane non avevano disposto alcuna misura nei confronti del marito della ricorrente, incorrendo perciò nella violazione sostanziale dell’art. 3 della Convenzione; il secondo, dal 2008 al 2017, in cui, secondo la Corte, le autorità italiana avevano compiuto un’adeguata valutazione del rischio di violenza cui era sottoposta la ricorrente, dando inizio a ben tre procedimenti penali. Tali procedimenti si concludevano con l’assoluzione per intervenuta prescrizione. Quest’ultima circostanza, a parere della Corte, dimostrava che le autorità italiane non si erano attivate prontamente ed efficacemente per proteggere la ricorrente, incorrendo, così, nella violazione dell’aspetto procedurale dell’art. 3 CEDU.

La Corte ritiene che non può dirsi sussistente una protezione efficace contro i maltrattamenti, compresa la violenza domestica, nel momento in cui il procedimento penale si conclude a causa dello spirare del termine di prescrizione per l’inattività giudiziaria.

La Corte ha ammonito l’Italia affermando il principio per cui « De ce point de vue, elle estime que les infractions liées aux violences domestiques, doivent figurer, même si elles sont commises par des particuliers, parmi les plus graves pour lesquelles la jurisprudence de la Cour considère qu’il est incompatible avec les obligations procédurales découlant de l’article 3 que les enquêtes sur ces délits prennent fin par l’effet de la prescription en raison de l’inactivité des autorités (en ce qui concerne l’octroi de l’amnistie en cas de violence sexuelle commises par des particuliers voir E.G. c. République de Moldova, précité, § 143, paragraphe 136 ci-dessus) ».

Di fatto, l’Italia è stata invitata a ripensare il sistema della prescrizione così come operante nei reati di violenza domestica, reati che spesso restano impuniti a causa dei ritardi dei Tribunali.

La Corte di cassazione afferma la responsabilità dei medici della ASL in un caso di nascita indesiderata

Con la sentenza n. 22532 del 2022, pubblicata il 18 luglio 2022, la terza sezione civile della Corte di cassazione affermava la responsabilità ed il conseguente obbligo al risarcimento del danno dei medici di una Asl e la Asl stessa in un caso di nascita non desiderata.

In particolare, una coppia, a seguito del concepimento del sesto figlio – causato dal cattivo esito dell’operazione di legatura delle tube cui la donna si era sottoposta – conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Agrigento, la ASL locale e i due medici responsabili dell’intervento, al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla nascita indesiderata e cagionati dalla loro imperizia.

Gli attori deducavano la lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, la violazione del diritto al consenso informato e la mancata informazione circa le indicazioni da seguire e le indagini post operatorie da effettuare.

I giudici di primo grado rigettavano il ricorso a causa dell’impossibilità, accertata in sede di c.t.u., di ricondurre il cattivo esito dell’operazione ad un’eventuale negligenza dell’equipe medica. La corte d’appello di Palermo, invece, adita dai ricorrenti, ribaltava la decisione del Tribunale e, fondandosi sull’esito di una nuova c.t.u., dichiarava la responsabilità dei medici e della ASL, condannandoli solidalmente al risarcimento danni a favore della ricorrente.

Avverso tale decisione presentavano ricorso in Cassazione i medici convenuti. Secondo i ricorrenti, la decisione della Corte d’appello non aveva, a torto, preso in considerazione le conclusioni della prima consulenza tecnica, che escludeva la responsabilità dei medici, per fondarsi unicamente sulla seconda.

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione respingeva il ricorso dei medici e confermava la sentenza della Corte d’Appello che aveva ritenuto la responsabilità dei medici, condannandoli al risarcimento dei danni in favore della paziente.

In questa sede la Cassazione esprimeva il principio per cui “la parte che in sede di legittimità lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del c.t.u. non può infatti limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere d’indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (cfr. tra le più recenti Cass. civ., Sez. III, ord., 13/07/2021, n. 19989)”.

La Grecia condannata per gravi violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel caso del naufragio di una nave migranti turca, causa della morte di 11 passeggeri

Con la Sentenza del 7 luglio 2022, la Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, condannava all’unanimità la Grecia per violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), sia nel suo risvolto materiale, che procedurale e dell’articolo 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti) della Convenzione.

Nei fatti, nella notte del 19 gennaio 2014, l’imbarcazione da pesca “Conzuru” partiva dalle coste turche con ventisette passeggeri al fine di raggiungere le coste greche. Dopo alcune ore di navigazione, nella mattina del 20 gennaio 2014 le autorità della guardia costiera nazionale, la intercettavano e organizzavano le operazioni di rimorchio al fine di ricondurre la nave nelle acque turche.

In seguito al taglio da parte degli agenti della guardia costiera del cavo utilizzato per trainare la nave, quest’ultima si capovolgeva. Alcuni dei naufraghi riuscivano a trovare soccorso sull’imbarcazione della guardia costiera, mentre undici passeggeri, in balìa del mare aperto, non riuscivano, sfortunatamente, a salvarsi.

A seguito degli eventi sopracitati e dell’esito non soddisfacente dei procedimenti attivati tramite le vie di ricorso interne, 16 passeggeri del peschereccio, parenti di alcune delle vittime del naufragio, introducevano un ricorso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, i ricorrenti invocavano una violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) nelle sue componenti sostanziale e procedurale, oltre che una violazione dell’articolo 13 della Convenzione (diritto ad un ricorso effettivo).

La Corte Europea giudicava innanzitutto ammissibile il ricorso e condannava il Governo greco, in ragione di una violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione. Sotto l’egida dell’articolo 2 i giudici censuravano il comportamento delle autorità greche, causa di un rischio eccessivo per la vita dei ricorrenti e non in conformità con le obbligazioni positive che tale disposizione impone agli Stati in materia di tutela del diritto alla vita.

Infine, la Corte ravvisava una violazione dell’art. 3 della Convenzione commessa dalle autorità greche, resesi colpevoli di trattamenti disumani e degradanti nei confronti dei naufraghi recuperati dalla nave, a seguito dell’incidente.

L’Assemblea Generale approva una storica risoluzione che riconosce il diritto umano a vivere in un ambiente salubre

Con 161 voti a favore e otto astensioni, ieri, 28 luglio, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione storica tramite la quale ha riconosciuto che il diritto a un ambiente pulito, salubre e sostenibile costituisce un diritto umano.

La risoluzione, che richiama il testo adottato l’8 ottobre 2021 dal Consiglio dei diritti umani sulla stessa materia (ris. n. 48/13), afferma che la promozione del diritto umano a un ambiente salubre richiede la piena attuazione degli accordi ambientali multilaterali secondo i principi del diritto internazionale ambientale, oltre ad attestare che il diritto a un ambiente salubre ha una sua base nel diritto internazionale.

L’Assemblea Generale invita poi gli Stati, le organizzazioni internazionali, le imprese e le altre parti interessate ad adottare politiche environmental-friendly, a migliorare la cooperazione internazionale, il capacity-building e a continuare a condividere le buone prassi al fine di intensificare gli sforzi per garantire un ambiente salubre per tutti.

Chiusura estiva dello studio: buone vacanze!

Nel ricordarvi che lo Studio resterà chiuso dal 5 al 19 agosto p.v. per la pausa estiva, è con piacere che tutti i membri dello Studio Vi augurano buone vacanze, con l’auspicio che possiate trascorrere giorni sereni per ripartire insieme a settembre con rinnovato vigore.

Buone vacanze a tutti!