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Newsletter n. 1 del 10 febbraio 2020

Sommario

Accordo di separazione: non solo l’Avvocato, serve anche il Notaio.

La seconda sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1202/2020 del 21 gennaio scorso, ha stabilito come l’Avvocato – in sede di negoziazione tra coniugi in tema di separazione o divorzio – non abbia il potere di certificare l’accordo tra le parti se nello stesso è previsto anche un trasferimento immobiliare. Questo significa che per poter porre in essere la trascrizione dell’accordo è necessaria l’autenticazione di un pubblico ufficiale, come il notaio.

La ragione di ciò è da ricercarsi nel fatto che il trasferimento della proprietà di una casa, secondo le leggi vigenti, è sottoposto a trascrizione, la quale è una forma di garanzia tesa a salvaguardare il principio di certezza del diritto, così che non possano sorgere dubbi su chi sia il proprietario di un immobile. Per procedere alla trascrizione, tuttavia, è necessaria, come prima ricordato, l’autentica del notaio, cosicché non risulta essere più sufficiente la presenza dei soli avvocati.
Dunque, tutto ciò comporta in capo al notaio un dovere di controllo dell’atto concluso in sede di negoziazione assistita, non potendo egli limitarsi ad una autentica cosiddetta minore, ossia della mera regolarità dell’atto alla normativa vigente.

In conclusione, la Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “ogni qualvolta l’accordo stabilito tra i coniugi, al fine di giungere ad una soluzione consensuale di separazione personale, ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni immobili, la disciplina di cui all’art. 6, d.l. n. 132 del 2014, conv. in L. n. 162 del 2014, deve necessariamente integrarsi con quella di cui all’art. 5, comma 3, del medesimo d.l. n. 132 del 2014, con la conseguenza che per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione contenente anche un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 3”.

Si tratta di una pronuncia che sembra andare contro il trend di semplificazione e celerità negli adempimenti correlati, insito nell’istituto della negoziazione assistita, che aumenta i tempi ed i costi di un procedimento nato per i motivi esattamente opposti.

La borsa di studio non esonera i genitori dal provvedere al mantenimento dei figli (Cass. Civ., ord. n. 1448 del 23 gennaio 2020).

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1448/2020 del 23 gennaio scorso, ha stabilito che un genitore non può considerarsi esonerato dall’obbligo di mantenimento del figlio anche se quest’ultimo percepisce una borsa di studio.
Nello specifico, la Cassazione si è pronunciata affermando che una borsa di studio di 800€ non è idonea a garantire l’indipendenza economica della figlia, cosicché la decisione della Corte d’Appello territoriale – con la quale si prevedeva l’obbligo del genitore a corrispondere alla prole un assegno mensile di 650 € – è stata confermata.

Il padre, in particolare, lamentava che la borsa di studio percepita dalla figlia maggiorenne lo esimesse dal versare il mantenimento per la stessa. La Corte, tuttavia, ha riconfermato un orientamento ormai costante della giurisprudenza, il quale stabilisce la non cessazione dell’obbligo di mantenimento a seguito del raggiungimento della maggiore età dei figli, quanto piuttosto la necessità di parametrarlo rispetto al raggiungimento dell’indipendenza economica degli stessi. Nel caso di specie, una borsa di dottorato pari a 800 € mensili, sia per la sua temporaneità, sia per la sua esiguità, non è stata ritenuta una entrata economica sufficiente a raggiungere l’indipendenza anzidetta.

Sulla responsabilità dell’Avvocato (Cass. Civ., sent. 1169 del 21 gennaio 2020).

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1169 del 21 gennaio scorso, ha rigettato il ricorso con cui un cliente che, risultato vincente in primo grado, si è poi visto negare la richiesta risarcitoria avanzata nei confronti del suo avvocato, il quale, a suo dire, aveva omesso di compiere alcuni atti difensivi, facendogli perdere la causa.
Viene ribadito il concetto, per vero affermato dalla giurisprudenza sul tema degli ultimi anni, secondo il quale per dichiarare la responsabilità dell’avvocato non è sufficiente appurare che egli non abbia adempiuto correttamente ai propri obblighi professionali, ma occorre altresì accertare che tale condotta abbia recato un effettivo pregiudizio al cliente, anche questo da dimostrare, e che la causa avrebbe avuto effettivamente un esito favorevole per l’assistito.
In altri termini, la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del non corretto adempimento dell’attività professionale. Occorre verificare: (i) che l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, (ii) che un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, che, (iii) ove il legale avesse tenuto il comportamento dovuto, il cliente, alla stregua dei criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni.
In difetto, manca la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.
L’onere della prova grava sul cliente che non può, dunque, genericamente lamentarsi che il suo legale abbia semplicemente omesso una determinata attività.

Pubblicato il rapporto annuale sull’attività della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Lo scorso 29 gennaio è stata pubblicata la relazione annuale sull’attività della Corte europea dei diritti dell’uomo, con riferimento al 2019.
Sono ben 59.800 i ricorsi pendenti dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (erano 56.350 nel 2018) e l’Italia continua ad essere tra i Paesi destinatari del maggior numero di ricorsi, con una percentuale del 5,1% (che vuol dire 3.050 ricorsi), preceduta dalla Russia (25,2), dalla Turchia (15,5), dall’Ucraina (14,8) e dalla Romania (13,2).

Dal documento arriva una conferma dell’alto numero di ricorsi dichiarati inammissibili che, nell’anno appena trascorso, sono stati 38.840 (40.022 nel 2018). Segno che gli individui che si ritengono vittime di una violazione della Convenzione europea sono molti di più, ma il filtro della Corte è ormai molto elevato. In ogni caso, nel 2019, i ricorsi alla Corte attribuiti a una formazione giudiziaria sono aumentati, con la conseguenza che il tasso di produttività è diminuito rispetto all’anno precedente. Nel complesso, sono stati 44.500 i ricorsi attribuiti a una formazione giudiziaria (+3% rispetto al 2018, con 43.100 casi). I ricorsi comunicati agli Stati sono arrivati a quota 6.642, con una diminuzione del 16% rispetto ai 7.646 del 2018.

Arriviamo alle sentenze: 884, con una diminuzione del 13%, mentre si registra un leggero incremento per le decisioni sulle misure provvisorie adottate in base all’art. 39 del Regolamento della Corte (1.570 a fronte delle 1.540 del 2018). Resta, in ogni caso, molto elevato il numero di richieste respinte da Strasburgo (544 casi). Aumentano le dichiarazioni unilaterali (1.511, erano 845 nel 2018), mentre i regolamenti amichevoli sono stati 1.688 (2.185 nel 2018). Per le sentenze, l’Italia ne conta 14, delle quali 13 con accertamento di una violazione. In particolare, 4 hanno riguardato la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 sul diritto di proprietà, 3 l’articolo 8 sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, 3 l’articolo 6 sulla durata dei processi, 1 la violazione del divieto di tortura (articolo 3) e 1 il divieto di trattamenti inumani e degradanti (articolo 3).
Tra le novità del 2019, il primo parere reso dalla Grande Camera grazie all’entrata in vigore per alcuni Stati del Protocollo n. 16 e la prima attivazione della procedura di ricorso ex art. 46, par. 4, nel caso Ilgar Mammadov c. Azerbaijan.