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Newsletter n. 2 del 22 febbaio 2024

Sommario

Corte EDU: la Grecia viola gli artt. 3 e 8 CEDU per non aver condotto delle indagini effettive e non aver tutelato la vittima in un caso di stupro

Con sentenza del 13 febbraio 2024 resa sul caso X. c. Grecia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione degli artt. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) CEDU per il mancato rispetto, da parte della Grecia, dell’obbligo di dare corso, a seguito di una denuncia per stupro, a delle indagini effettive e di tutelare la vittima in una prospettiva di genere.

In particolare, il caso originava da una denuncia di stupro presentata dalla ricorrente, cittadina britannica, durante una vacanza in Grecia con la madre.

A seguito della denuncia, non le veniva fornito alcun supporto, né alcuna informazione medica;  non le veniva data nessuna spiegazione sulla procedura giudiziaria greca e sui suoi diritti; le veniva chiesto di identificare l’indagato alla stazione di polizia senza alcuna accortezza per tenerli separati; veniva portata in clinica e fatta sedere accanto all’indagato; gli esami medici venivano eseguiti da personale di sesso maschile senza che le fosse fornita alcuna spiegazione sulla natura degli stessi; il giorno seguente veniva portata, sempre senza alcuna spiegazione, alla stazione di polizia dove le si chiedeva di firmare dei documenti in lingua greca sprovvisti di una traduzione ufficiale.

In seguito, iniziava un procedimento penale nei confronti dell’imputato, conclusosi nel 2021 con la sua assoluzione. Della chiusura del procedimento e dello svolgimento dello stesso non veniva data alcuna comunicazione alla ricorrente.

La ricorrente apprendeva della conclusione del procedimento solo in un secondo momento, tramite l’ambasciata britannica. Di conseguenza, con l’ausilio del suo legale, procedeva a richiedere il fascicolo relativo al suo caso. Tuttavia, detto accesso le veniva negato in ragione della sua mancata costituzione quale parte civile nel processo penale.

Per tali ragioni la signora X proponeva ricorso dinanzi la Corte EDU, lamentando la violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione, in quanto, a seguito della denuncia da lei sporta, le autorità non avevano dato corso a delle indagini effettive e non avevano avuto cura di fornirle alcuna informazione sui suoi diritti quale parte offesa, né l’avevano trattata con la cautela adeguata al caso di specie.

Il Governo, dal canto suo, sosteneva, preliminarmente, il mancato previo esaurimento delle vie di ricorso interne – in quanto la ricorrente non si era mai costituita parte civile nel procedimento penale – nonché la tardività del ricorso. Nel merito, il Governo affermava che il diritto penale greco fornisce sufficienti tutele alle vittime di stupro, tutele applicate nel caso in esame.

La Corte, con la sentenza in commento, nel rigettare le eccezioni preliminari del Governo, dichiarava la violazione degli artt. 3 e 8 CEDU. Infatti, secondo la Corte, pur essendo presente nell’ordinamento greco un quadro normativo idoneo a tutelare le vittime di stupro, nella fattispecie le autorità non avevano condotto delle indagini effettive e non avevano trattato il caso con la cautela necessaria, dando così luogo a fenomeni di vittimizzazione secondaria.

Le autorità avrebbero dovuto tenere in maggiore considerazione la gravità del reato commesso in una prospettiva di genere, nonché la giovane età della ricorrente che, per di più, si trovava in vacanza in un paese straniero.

Invece, in seguito alla presentazione della denuncia da parte della ricorrente, le autorità non avevano adottato alcuna accortezza specifica nel trattare il suo caso, né l’avevano informata dei suoi diritti, facendola, per altro, incontrare più volte con l’indagato.

Di conseguenza, la Corte ha affermato il principio per cui, al di là della colpevolezza dell’indagato, “the failure of the investigative and judicial authorities to adequately respond to the allegations of rape in the present case amount to a violation of the positive obligations of the State under Articles 3 and 8 of the Convention”.

Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE): la violenza di genere costituisce una condizione per il riconoscimento dello status di rifugiato

Con la recente sentenza resa nella causa C-621/21, la CGUE ha stabilito il principio per cui le donne che subiscono o rischiano di subire “violenza fisica o mentale, compresa la violenza sessuale e la violenza domestica” a causa del loro sesso nel Paese d’origine possono chiedere protezione e ottenere lo status di rifugiato.

Il caso originava da una domanda di protezione internazionale presentata da una cittadina turca in Bulgaria. In particolare, la richiedente adduceva di essere stata costretta dalla sua famiglia a sposarsi e di essere vittima di violenza di genere, dichiarando che in caso di rimpatrio in Turchia avrebbe subito un grave rischio alla propria vita.

Il giudice bulgaro investito della causa decideva di sottoporre talune questioni alla Corte di giustizia.

Con la pronuncia in commento, la Corte di giustizia ha affermato il principio per cui la direttiva 2011/951 – che stabilisce le condizioni per il riconoscimento, da un lato, dello status di rifugiato e, dall’altro, della protezione sussidiaria di cui possono beneficiare i cittadini di paesi terzi – va interpretata nel rispetto della Convenzione di Istanbul che riconosce la violenza contro le donne basata sul genere come una forma di persecuzione.

Di conseguenza, le donne, nel loro insieme, possono ben essere considerate come appartenenti a un gruppo sociale ai sensi della direttiva 2011/95 e quindi beneficiare dello status di rifugiato qualora siano soddisfatte le condizioni previste da tale direttiva. Qualora, invece, le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato non siano soddisfatte, esse possono comunque beneficiare dello status di protezione sussidiaria, in particolare se corrono un rischio effettivo di essere uccise o di subire violenze.

Corte di Cassazione: il respingimento collettivo dei migranti nel porto di Tripoli è reato perché la Libia non è un porto sicuro

Con sentenza n. 4557/2024, depositata in cancelleria il 1° febbraio 2024, la quinta sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso presentato da G. S., condannato in primo grado e in appello per aver fatto sbarcare centouno migranti, tra cui minori e donne in stato di gravidanza, in un porto non sicuro.

In particolare, il 30 luglio 2018, G. S., comandante dell’imbarcazione italiana Asso28, che si trovava in acque internazionali come nave di appoggio e supporto ad una piattaforma petrolifera, rilevava la presenza di un gommone con centouno migranti a bordo nelle acque internazionali limitrofe alla costa libica. G. S., dopo aver consentito il trasbordo sulla nave di un ufficiale di dogana libico, senza procedere alla sua identificazione – in violazione del regolamento tecnico di sicurezza per navi in acque internazionali, l’ISPS code (International ship and port security code) – intercettava il gommone dei migranti, soccorrendoli e successivamente riportandoli in Libia, facendoli sbarcare nel porto di Tripoli.

Con tale condotta, G. S. cagionava ai centouno migranti un “danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali e dal Testo unico sull’immigrazione, nello sbarco in un paese terzo considerato porto non sicuro”. Come evidenziato dalla Corte di cassazione nella sentenza in parola, infatti, la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati. Tale elemento, congiuntamente all’accertata ineffettività del sistema di accoglienza e alle condizioni inumane e degradanti nei centri di detenzione per migranti in Libia, impone di ritenere quello di Tripoli un porto non sicuro.

L’imputato veniva condannato nel 2021 dal G.U.P. di Napoli, con successiva conferma nel 2022 da parte della Corte d’appello di Napoli, per i reati previsti dal dell’art. 591 cod. pen. e dall’art. 1155 cod. nav. In particolare, a G. S. veniva contestato di aver fatto sbarcare cinque minori e cinque donne in stato di gravidanza in un porto non sicuro, fatto che veniva ricondotto al reato di abbandono di persone minori e incapaci ai sensi dell’art. 591 cod. pen. Veniva inoltre condannato ai sensi dell’art. 1155 cod. nav. per aver proceduto all’arbitrario sbarco di centouno migranti nel porto di Tripoli, con l’aggravante del fatto che si trattava di passeggeri privi dei mezzi di sussistenza.

Tra i vari motivi di ricorso, tutti ritenuti infondati, vi era l’omessa concessione delle attenuanti generiche. Sosteneva la difesa del G. S., infatti, che la particolare natura politica delle scelte di affidamento dei migranti verso l’autorità libica è poi ricaduta sull’imputato come “ultimo della intera catena di presunte responsabilità”.

La Corte di cassazione ha ritenuto congrua la mancata concessione delle attenuanti generiche, non ritenendo che il riconoscimento delle stesse debbano essere “conseguenti alla scelta politica governativa” di consentire si svolgere operazioni SAR (search and rescue) nella zona libica. Argomenta la Corte che un’adeguata vigilanza e un’accorta esecuzione dei doveri propri della posizione di garanzia dell’imputato, così come prescritti dalla normativa sovranazionale, europea e nazionale, avrebbero permesso a G. S. di evitare di incorrere in responsabilità penale per respingimento collettivo e abbandono dei profughi.

Adozione in casi particolari. Quando il dissenso del genitore biologico è ostativo all’adozione da parte del genitore sociale?

Con ordinanza n. 3769 del 12 febbraio 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’efficacia del dissenso del genitore biologico all’adozione speciale (ex art. 44, co. 1 lett. d, legge n. 184 del 1983) di un minore da parte della compagna.

Sul punto, la Corte di Cassazione, pur giungendo ad una soluzione differente, si è posta in linea di continuità con il recente pronunciamento espresso dalla sentenza n. 38162/2022 delle Sezioni Unite, con cui si chiariva la disciplina e gli effetti dell’adozione in casi particolari da parte del genitore intenzionale nell’ambito di coppie omoaffettive, con particolare riferimento alla problematica della revoca dell’assenso all’adozione compiuto dal genitore biologico in fattispecie relative a nascita da gestazione per altri.

In particolare, per quel che qui interessa, con la sentenza n. 38162/2022, le Sezioni Unite hanno affermato, con argomenti applicabili anche all’ipotesi in esame, che “Il minore nato all’estero mediante il ricorso alla surrogazione di maternità ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con il genitore d’intenzione; tale esigenza è garantita attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d) della L. n. 184 del 1983 che, allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, rappresenta lo strumento che consente, da un lato, di conseguire lo “status” di figlio e, dall’altro, di riconoscere giuridicamente il legame di fatto con il “partner” del genitore genetico che ne ha condiviso il disegno procreativo concorrendo alla cura del bambino sin dal momento della nascita” e che “l’effetto ostativo del dissenso dell’unico genitore biologico all’adozione del genitore sociale, allora, può e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. In altri termini, è possibile superare la rilevanza ostativa del dissenso all’adozione in casi particolari ai sensi della lett. d), tenendo conto che il contrasto rischia, non di vanificare l’acquisto di un legame ulteriore rispetto a quello che il minore ha con la famiglia di origine, ma proprio di sacrificare uno dei rapporti sorti all’interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe invece essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo”.

Il caso in commento, tuttavia, si differenzia da quello esaminato dalle Sezioni Unite sopra richiamate perché la nascita del minore non era avvenuta all’esito di un percorso di PMA o di una maternità per altri, né vi era stata un’anticipata prestazione del consenso alla nascita.

Ciononostante, nel confermare la sentenza emessa dalla Corte di Appello e in applicazione dei mutuabili principi su esposti, la Cassazione ha affermato che in tema di adozione in casi particolari l’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore sociale deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, sicché il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi – quale quella di specie – in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato.

Si segnala il Convegno “Revisione e revocazione europea dopo la riforma Cartabia: stato dell’arte e prospettive di sviluppo”

Dopo anni di elaborazione giurisprudenziale e ripetuti interventi della Corte costituzionale, la riforma Cartabia ha finalmente codificato nell’ordinamento italiano due specifici mezzi straordinari di impugnazione che consentono, a determinate condizioni, di rimuovere gli effetti del giudicato civile e di quello penale per dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: la “revisione europea” e la “revocazione europea”.

Ritenendoli argomenti di fondamentale rilevanza, la Corte di Cassazione e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani organizzano il convegno “Revisione e revocazione europea dopo la riforma Cartabia: stato dell’arte e prospettive di sviluppo”.

Il convegno si propone di esaminare le caratteristiche, le potenzialità e le criticità dei nuovi istituti della “revocazione europea” prevista dall’art. 391-quater c.p.c. e della “revisione europea” prevista dall’art. 628-bis c.p.p., inquadrandoli nel contesto degli obblighi internazionali che impongono all’Italia, in quanto Stato parte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di “conformarsi” alle sentenze rese dalla Corte di Strasburgo mediante l’adozione di misure individuali di restitutio in integrum idonee a rimuovere integralmente gli effetti pregiudizievoli di una violazione che non siano riparabili in forma pecuniaria.

Nonostante la possibile cedevolezza del giudicato abbia tradizionalmente incontrato forti resistenze a livello nazionale, è oggi avvertita come insuperabile l’esigenza di assicurare un effettivo ripristino dei diritti violati attraverso la riapertura dei procedimenti interni, specialmente nel caso in cui sia la stessa Corte europea ad indicare tale specifica misura riparativa (come accade in materia penale) ovvero nel caso in cui essa si ritenga incompetente a speculare sul possibile esito del giudizio interno al fine di accordare una compensazione pecuniaria in favore della vittima (come accade in materia civile).

Il convegno, la cui partecipazione è a titolo gratuito, si terrà a Roma il 14 marzo 2024 (ore 15.00 – 18.00), presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione e potrà essere seguito in presenza o da remoto.

Il Consiglio Nazionale Forense ha riconosciuto n. 3 crediti formativi per la partecipazione all’evento.

Per partecipare è necessario compilare il modulo al seguente link: https://forms.gle/nREHiuQHC4EEjgb3A

Per eventuali ulteriori informazioni: info@unionedirittiumani.it – tel. 068412940.

La locandina dell’evento può essere scaricata qui.

Seminari su “I diritti garantiti nel sistema multilivello di tutela e le nuove generazioni di diritti”

L’Unione forense per la tutela dei diritti umani organizza una serie di seminari su “I diritti garantiti nel sistema multilivello di tutela e le nuove generazioni di diritti”.

I seminari sono aperti a tutti coloro i quali siano interessati ad approfondire l’argomento della tutela internazionale dei diritti fondamentali, quali diritto alla vita e alla libertà, nonché di diritti di nuova generazione, come il diritto alla privacy e il diritto ad un ambiente salubre. Le lezioni saranno tenute da parte di alcuni dei massimi esperti in materia.

Al termine del corso è previsto il rilascio di un attestato di partecipazione. Il Consiglio Nazionale Forense ha riconosciuto n. 20 crediti formativi per la partecipazione ai seminari.

Il corso si articola in 8 incontri, che si terranno  in modalità streaming attraverso la piattaforma Microsoft Teams nelle seguenti date:

  • venerdì 16 febbraio 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Diritto alla vita nell’interpretazione dei giudici interni e internazionali”, tenuto dal Prof. Avv. Andrea Saccucci;
  • venerdì 23 febbraio 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Divieto di tortura nella giurisprudenza della Corte EDU”, tenuto dalla Prof. Rossana Palladino, dal Roberto Chenal e dal Prof. Antonio Marchesi;
  • venerdì 8 marzo 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Diritto alla libertà e detenzione: esercitazione su Comitato CAT”, tenuto dall’Avv. Federico Cappelletti e dal Dott. Mauro Palma;
  • venerdì 5 aprile 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Diritto a vita privata e familiare”, tenuto dall’Avv. Maria Paola Costantini e dall’Avv. Massimo Benoit Torsegno;
  • venerdì 19 aprile 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Diritto di espressione e associazione”, tenuto dalla Prof. Avv. Marina Castellaneta e dal Dott. Andrea Tamietti;
  • venerdì 3 maggio 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Diritto alla privacy e protezione dei dati personali tra GDPR e normativa nazionale”, tenuto dal Prof. Avv. Alberto Gambino, dal Prof. Avv. Ugo Ruffolo e dal Prof. Giovanni Sciancalepore;
  • venerdì 10 maggio 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Verso un diritto a un ambiente salubre”, tenuto dalla Prof. Angela Di Stasi, dall’Avv. Francesco Rosi e dal Prof. Avv. Andrea Saccucci;
  • venerdì 24 maggio 2024 (ore 14.00 – 18.00) – “Impresa e diritti umani”, tenuto dalla Prof. Sabrina Bruno, dalla Prof. Avv. Maria Beatrice Deli, dall’Avv. Laura Guercio e dal Prof. Marco Fasciglione.

Il costo della partecipazione all’intero corso (8 incontri) è 360,00 € oltre IVA (440,00 € complessivi). È possibile iscriversi  alle singole giornate di studio con una quota di partecipazione di € 45,00 oltre IVA (€ 55,00 complessivi).

Per iscriversi è necessario compilare il modulo di iscrizione. La compilazione del modulo richiede la sincronizzazione della propria e-mail oppure il possesso di un account Gmail (che può essere facilmente creato qui) congiuntamente all’effettuazione del bonifico come di seguito:

Intestato a: UFTDU

Causale: Nome/Cognome – Seminario diritti multilivello

IBAN: IT12X0306909606100000060078

Per ulteriori informazioni rivolgersi alla segreteria dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani (sig.ra Gioia Silvagni), tel. 06-8412940, email: info@unionedirittiumani.it.

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