Con una recentissima sentenza emessa dal tribunale di Perugia, all’esito di un tormentato iter giudiziario che ha visto due coniugi impegnati prima in un giudizio di separazione e poi, di divorzio, la Studio Lana Lagostena Bassi Rosi è finalmente riuscito ad ottenere la migliore tutela delle ragioni del proprio Assistito, un giovane imprenditore.
Nel caso di specie, il matrimonio aveva avuto una brevissima durata (circa un anno e mezzo) e la coppia non aveva avuto figli. Ciononostante, la donna chiedeva un assegno di mantenimento (in sede di separazione) ed un assegno di divorzio (nella successiva fase di giudizio), sulla base di non meglio precisati ‘problemi di salute’.
Tuttavia, se pure il Giudice della separazione – in virtù della diversa natura dell’assegno di mantenimento rispetto a quello di divorzio – aveva disposto in capo al marito l’obbligo di corrispondere una somma mensile in favore della donna, il Giudice del divorzio ha accolto pienamente le istanze sollevate dal nostro Studio, elidendo tale onere.
Ed infatti, il Tribunale ha correttamente vagliato le risultanze emerse nel corso dei giudizi: era infatti stato evidenziato come la donna disponesse di un’attività lavorativa stabile, consona al titolo di studio di cui era titolare ed anche di un’abitazione in proprietà e che non dove pertanto sostenere alcun costo di alloggio.
Più in generale, la giovane età della convenuta, unita al titolo di studio di cui disponeva, inducevano a ritenere che ella fosse perfettamente in grado di mantenere una propria autonomia economica. Dunque, ella non aveva certamente diritto all’assegno divorzile.
Ciò in applicazione dell’ormai consolidato orientamento della Suprema Corte (solennizzato dalla sentenza numero 11504 del 10 maggio 2017) per cui ciò che rileva ai fini della concessione dell’assegno di divorzio non è (più) il “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma l'”indipendenza o autosufficienza economica” del soggetto che ne fa richiesta. Essa deve essere desunta da alcuni indici, quali: il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, la capacità e la possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo), la stabile disponibilità di una casa di abitazione».
Con l’ordinanza interlocutoria 27 ottobre – 17 dicembre 2020, n. 28995/2020, la Sezione I della Cassazione pone all’attenzione delle Sezioni Unite l’interessante quesito circa l’idoneità della semplice convivenza more uxorio a provocare, senza alcuna valutazione discrezionale del giudice, l’immediata ed automatica soppressione dell’assegno di divorzile.
La questione mira a ripensare l’indirizzo recentemente formatosi nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6855/15, Cass. n. 2466/16 e Cass. n. 22604/20), e tutt’oggi dibattuto tra i giudici, in nome del quale, al pari di quanto accade in caso di nuove nozze, l’estinzione automatica del diritto all’assegno di divorzio e senza alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice si determini anche solo a seguito di mero accertamento della costituzione di una nuova famiglia di fatto, ormai riconosciuta e tutelata al pari della famiglia matrimoniale tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.
La questione giunge all’attenzione della Suprema Corte a seguito del ricorso proposto avverso una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che esprimendosi nel senso che “la semplice convivenza more uxorio con altra persona provochi, senza alcuna valutazione discrezionale del giudice, l’immediata soppressione dell’assegno divorzile”, aveva respinto la domanda dell’ex moglie di riconoscimento di detto assegno, avendo costei instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno, da cui aveva avuto una figlia.
La donna, nei nove anni di matrimonio, aveva infatti rinunciato ad un’attività professionale o comunque lavorativa, per dedicarsi interamente ai figli; viceversa il marito aveva potuto realizzarsi ed era divenuto amministratore e proprietario di una prestigiosa impresa operante nel settore calzaturiero, con un fatturato all’estero pari a qualche milione di euro.
Non più in età per poter reperire attività lavorativa, la signora viveva con i figli dell’assegno divorzile e l’attuale compagno percepiva un reddito lavorativo di circa mille euro mensili.
Il rimettente, valorizzando la funzione retributivo-compensativa dell’assegno, dubitava della possibilità di fare applicazione del consolidato orientamento che impone l’estinzione dell’assegno una volta accertata una sopravvenuta stabile convivenza di fatto, senza possibilità per il giudicante di ponderare i redditi dei coniugi al fine di stabilire, in ogni caso, un eventuale assegno divorzile; a suffragio di tale conclusione, si opponeva come l’indicato automatismo – in aperto contrasto con la lettera della norma – andrebbe riferito al solo e diverso caso delle nuove nozze.
E così, adesso, le Sezioni Unite dovranno stabilire e chiarire se “instaurata la convivenza di fatto, definita all’esito di un accertamento pieno su stabilità e durata della nuova formazione sociale, il diritto dell’ex coniuge, sperequato nella posizione economica, all’assegno divorzile si estingua comunque per un meccanismo ispirato ad automatismo, nella parte in cui prescinde di vagliare le finalità proprie dell’assegno, o se siano invece praticabili altre scelte interpretative che, guidate dalla obiettiva valorizzazione del contributo dato all’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, sostengano dell’assegno divorzile, negli effetti compensativi suoi propri, la perdurante affermazione, anche, se del caso, per una modulazione da individuarsi nel contesto sociale di riferimento”.
Niente assegno divorzile per l’ex coniuge che, dichiaratosi impossibilitato di lavorare, in realtà lavora in nero. Questo è il (condivisibile) principio che emerge da una recente sentenza della Cassazione, la quale – peraltro – legittima l’uso delle investigazioni private per verificare la veridicità delle affermazioni dell’ex coniuge ai fini del percepimento dell’assegno divorzile.
La sentenza in commento si pone nel solco di una giurisprudenza ormai monolitica, la quale ribadisce il principio per cui l’assegno divorzile spetta all’ex coniuge economicamente più debole ed impossibilitato a lavorare. Tale impossibilità può derivare da motivi di salute o da difficoltà a trovare un posto (ad esempio, una donna che ha fatto sempre la casalinga). Tuttavia, l’ex coniuge deve dimostrare ai giudici l’impossibilità a mantenersi.
Al centro della vicenda di cui si discute vi era una donna, licenziatasi per problemi di salute dallo studio di commercialista dov’era impiegata, e che proprio per questo motivo asseriva di non potere più svolgere attività lavorativa.
L’ex marito, pertanto, versava un assegno divorzile che la donna chiedeva fosse aumentato.
L’uomo, sospettoso della situazione, si rivolgeva ad un investigatore privato per verificare se quanto sostenuto dall’ex moglie corrispondesse al vero. Il detective appurava che, nonostante la donna avesse dato le dimissioni, lavorava ancora in nero presso lo stesso studio di commercialista. In questo modo percepiva sia lo stipendio che l’assegno divorzile dall’ex marito.
Respinto il ricorso dalla Corte d’Appello, la donna introitava ricorso per Cassazione; anche in questa sede, ancora una volta, vedeva rigettare le proprie richieste. Più in particolare, la Corte Suprema respingeva la domanda di aumento dell’assegno divorzile e ribadiva le modalità con cui lo stesso può essere percepito, che escludono senz’ombra di dubbio la possibilità di lavorare in nero. Gli ermellini inoltre sottolineavano la scelta, del tutto lecita dell’uomo, di affidarsi a un investigatore privato. Le indagini, volte a verificare se l’ex coniuge percepisce indebitamente l’assegno divorzile, sono da considerarsi sempre legittime.
L’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano ha aggiornato i valori di liquidazione del danno non patrimoniale alla persona: tutti gli importi della tabella del 2018 (non arrotondati) sono stati rivalutati dell’1,38% (coefficiente di rivalutazione = 1,0138 del periodo gennaio 2018 – gennaio 2021).
Come ampiamente illustrato nella comunicazione del 10 marzo 2021, l’Osservatorio ha peraltro proceduto a una “rivisitazione grafica delle Tabelle, rivisitazione resasi necessaria a seguito dei recenti orientamenti della Cassazione, fermi i valori monetari come aggiornati secondo gli indici ISTAT”. Più particolare, è interessante notare come sia stata aggiornata la terminologia usata nell’intestazione delle colonne, prendendo atto che le voci di danno non patrimoniale, prima denominate “danno biologico” e “danno morale/sofferenza soggettiva”, sono attualmente dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina definite come “danno biologico/dinamico-relazionale” e “danno da sofferenza soggettiva interiore” media presumibile (ordinariamente conseguente alla lesione dell’integrità psicofisica accertata)”.
Come chiarito nel comunicato, l’Osservatorio ha voluto “rendere lo strumento delle Tabelle milanesi il più agevole possibile, in modo da conciliare l’esigenza di una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale alla salute adeguata e congrua rispetto al caso singolo con l’esigenza della prevedibilità ed uniformità delle liquidazioni giudiziali sul territorio nazionale, anche per agevolare la definizione transattiva delle controversie”.
Nella sua sentenza nella causa Petrella c. Italia del 18 marzo 2021 (ricorso n.24340/07), la Corte europea dei diritti dell’uomo afferma la violazione da parte dell’Italia, dell’articolo 6 CEDU (diritto ad un processo equo entro un ragionevole periodo di tempo) data la durata della procedura del caso in questione, dell’art. 13 CEDU (diritto ad un rimedio effettivo) e della violazione del diritto all’accesso ad un tribunale per condotta negligente dell’ufficio del pubblico ministero.
Il caso riguarda la durata delle indagini preliminari svolte nell’ambito del procedimento penale intentato dal ricorrente per diffamazione contro i suoi accusatori. In primo luogo, la CEDU osserva che sono trascorsi 5 anni e mezzo solo per la fase delle indagini preliminari in un caso di non particolare complessità e senza che fossero compiuti atti istruttori. Pertanto, riscontrata l’inerzia dell’autorità giudiziaria e vista la lunghezza della fase dedicata alle investigazioni, la CEDU ravvede una violazione del principio della durata ragionevole del procedimento. In questo modo i giudici di Strasburgo collocano anche in capo all’offeso la titolarità del diritto ad un giusto processo ai sensi dell’art. 6 §1 CEDU.
In secondo luogo, posto che l’inerzia investigativa ed il passaggio del tempo hanno determinato l’archiviazione per prescrizione del reato, la condotta delle autorità ha privato il denunciante della possibilità di costituirsi parte civile: in questo modo il denunciante è stato privato della possibilità di esercitare l’azione civile nel tipo di procedimento che egli aveva scelto di avviare, in conformità alle disposizioni di legge.
Infine, c’è un altro fatto evidenziato dalla Corte: il ricorrente non ha potuto nemmeno fare ricorso alla “Legge Pinto”, che disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo, in quanto la stessa non si applica fuori dallo stesso, sottolineando come nel diritto interno italiano non vi sia alcuno strumento che avrebbe consentito al ricorrente di lamentarsi della durata del procedimento.