Con sentenza del 2 giugno 2022, la Corte europea dei diritti dell’uomo, ravvisava una violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti disumani e degradanti) e dell’art. 5, commi 1e 4 CEDU (concernenti le condizioni di detenzione, rispettivamente, di individui maggiorenni e minorenni).
Nel caso di specie, ricorreva una famiglia irachena composta dai due genitori e da 4 figli minori. Questi lamentavano le condizioni disumane cui erano stati sottoposti nel campo di transito, al confine tra Ungheria e Serbia, presso il quale erano stati temporaneamente affidati, in attesa della decisione dell’autorità pubblica concernente la domanda di asilo introdotta al loro arrivo nello Stato.
Durante il tempo trascorso nel suddetto centro, la famiglia veniva a trovarsi in uno stato di vero e proprio confinamento, costretti a trattenersi nei locali loro dedicati, e potendo uscire esclusivamente in caso di necessità, scortati e sotto il controllo delle forze dell’ordine.
La Corte, dopo un’attenta analisi della sua giurisprudenza in materia (Khalifia e altri c. Italia del 15 dicembre 2016 e RR. e altri c. Ungheria del 2 Giugno 2021), ravvisava la violazione , da parte dell’Ungheria, dell’art. 3, considerando le condizioni del centro di transito come integranti un trattamento disumano e degradante, facendo leva soprattutto sulla particolare fragilità di alcuni dei membri del nucleo familiare: nello specifico i figli minori, nonché la loro madre in stato di gravidanza.
La Corte riteneva integrata, inoltre, una violazione dell’articolo 3 nei confronti del ricorrente (padre) sulla circostanza che questi era stato ammanettato senza che le condizioni fattuali lo giustificassero, integrando così una pratica illegittima in quanto degradante e lesiva della dignità (cfr. Pranjic- M. Luckic c. Bonsia Erzegovina).
Infine, i giudici di Strasburgo accertavano anche la violazione dell’art. 5, commi 1 e 4 CEDU. Sosteneva la Corte che nessuno, infatti, può essere privato della propria libertà personale, se non nei casi ed in accordo con le procedure previste dalla legge. Nonostante le condizioni presso il centro di transito, con un’importante limitazione delle libertà personali dei ricorrenti, nello specifico della loro libertà di andare e venire, non vi era stata alcuna pronuncia di una autorità giurisdizionale, che giustificasse tale limitazione o che garantisse il rispetto dei loro diritti.
Con la decisione Xavier Lucas c/ Francia del 9 giugno 2022 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ravvisava una violazione da parte della Francia dell’art. 6 comma 1 della Convenzione EDU (Diritto all’equo processo).
Nei fatti, il ricorrente, azionista maggioritario di una società destinataria di una sentenza arbitrale, intervenuta il 15 novembre 2013, si era visto rigettare il ricorso in annullamento presentato avverso tale decisione in ragione del mancato rispetto delle formalità imposte dalla legge per la presentazione di suddetta documentazione, da effettuarsi in modalità digitale, su una piattaforma dedicata.
A seguito di particolari difficoltà nell’utilizzo della piattaforma non idonea all’introduzione di ricorsi concernenti sentenze arbitrali, il ricorso veniva introdotto in via cartacea, attraverso la consegna da parte del legale del ricorrente alla cancelleria della giurisdizione competente, ciò aveva come conseguenza l’inammissibilità del ricorso stesso.
Il ricorrente agiva sostenendo che il formalismo eccessivo dell’impianto processuale aveva comportato una violazione del suo diritto all’equo processo, minando l’effettività del suo diritto ad accedere ad una giurisdizione e un giudice.
La Corte accoglieva le doglianze del ricorrente e si pronunciava, rilevando una violazione dello Stato francese dell’articolo 6 comma 1 CEDU.
I giudici di Strasburgo richiamavano i criteri elaborati dalla stessa Corte nel caso Zubac c. Croazia del 5 aprile 2018, utilizzati per verificare se le restrizioni previste dalla legge nell’accesso alla giurisdizione possano essere ritenute legittime.
In base a tali criteri, i giudici consideravano dunque il formalismo espresso nel caso di specie dalla legislazione francese come eccessivamente limitativo del diritto riconosciuto dall’art. 6, comma 1, della Convenzione, giudicando la decisione della giurisdizione interna come costituente un onere eccessivo per il ricorrente, rompendo il corretto bilanciamento tra rispetto della legalità e diritto di accesso al giudice.
Con l’ordinanza n. 8183/2022 la prima sezione della Corte di cassazione rendeva una decisione importante in materia di assegno divorzile corrisposto all’ex-coniuge economicamente più fragile, confermando una giurisprudenza ormai consolidata.
Nel caso di specie, a seguito della pronuncia del Tribunale di Venezia di cessazione degli effetti civili del legame matrimoniale tra i ricorrenti, la giurisdizione civile aveva predisposto un affidamento esclusivo dei figli in capo alla madre, e un assegno divorzile necessario al mantenimento di quest’ultima ed uno per i figli.
La decisione dei giudici di primo grado veniva successivamente ribaltata dalla Corte d’Appello di Venezia, che, invece, oltre a stabilire un affidamento congiunto, pronunciava la revoca dell’assegno divorzile spettante alla moglie. I giudici di merito rilevavano infatti che la donna aveva nel frattempo stabilito una convivenza more uxorio con un altro uomo, circostanza considerata alla base della costruzione di un nuovo nucleo familiare e per questo incompatibile con il mantenimento di una condizione di dipendenza dall’ex marito.
Contro questa decisione agiva dunque la ricorrente, l’applicazione per analogia della disposizione di cui all’art. 5, comma 10, della legge n.898 del 1970 – che prevede la cessazione dell’assegno divorzile in caso di nuovo matrimonio di uno dei partner – alla convivenza more uxorio.
La questione, vista la grande portata giuridica e sociologica, veniva quindi rinviata al Primo Presidente della Corte di Cassazione, in vista di un rinvio alle Sezioni Unite.
Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla vicenda, con la sentenza n. 32198/2021, accoglievano la domanda della ricorrente, negando la sussistenza di un’automaticità tra instaurazione di una nuova convivenza e la cessazione dell’assegno divorzile, rimandando per l’esame degli altri motivi alla sezione semplice.
All’esito del procedimento, quindi, la Corte precisava come l’instaurazione del nuovo rapporto potrà in ogni caso rilevare in vista di un’eventuale modifica o cessazione dell’assegno, secondo valutazioni che dovranno dipendere dalle circostanze fattuali e da un’analisi del caso specifico.
Con sentenza n. 8642/2022 il Tribunale di Roma ha autorizzato l’adeguamento dei caratteri sessuali primari da maschili e femminili e contemporaneamente ordinato – nell’immediato – la rettifica sull’atto di nascita.
Parte attrice adiva il Tribunale di Roma al fine di ottenere l’autorizzazione all’adeguamento dei caratteri sessuali tramite trattamento medico chirurgico nonché quella per la contestuale rettificazione dei dati anagrafici relativi al sesso – da maschile a femminile– unitamente al prenome in tutti gli atti e i documenti.
Il collegio, rilevando come la ragazza avesse manifestato sin dall’infanzia una natura psicologica e comportamentale tipicamente femminile, pur essendo a livello biologico un individuo di sesso maschile, ha accolto le domande attoree di cui sopra. Nella motivazione ha valutato come già dal 2021 la ragazza avesse iniziato una terapia ormonale continua e che la condizione esistenziale della medesima e i bisogni da lei espressi richiedessero la rettificazione chirurgica ed anagrafica al fine di permetterle di raggiungere un riequilibrio psicofisico.
Il Tribunale ha considerato le difficoltà quotidiane affrontate dalla ragazza nel presentarsi coerentemente all’identità di genere cui si sente di appartenere, continuando a possedere documenti anagrafici al maschile, subendo così una forte limitazione della propria libertà di autodeterminazione.
Considerate tali premesse sull’attuale condizione psicologica della persona e le lunghe liste d’attesa per poter effettuare gli interventi di riattribuzione di sesso in Italia, il collegio ha ritenuto di autorizzare contemporaneamente sia il cambio anagrafico sia l’autorizzazione a potersi sottoporre agli interventi chirurgici stessi
Nell’accogliere la domanda, il Tribunale ha richiamato la sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 221/2015 la quale affermava che “la rettificazione dell’attribuzione anagrafica di sesso si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali, subordinerebbe irragionevolmente l’esercizio del fondamentale diritto all’identità di genere a trattamenti sanitari pericolosi per la salute. Tale disposizione costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona”.